Le arti marziali sono nate in antitesi ai sistemi di lotta o combattimento c.d. “classici” o “comuni”.
Ma qual’è la differenza?
È l’utilizzo delle tecniche? O la finalità a cui esse si riferiscono?
Le arti marziali sono nate in oriente come spontaneo sviluppo di un determinato approccio culturale e didattico basato sulla educazione mentale e fisica come visualizzazione concentrazione, respirazione ecc., nonché su fondanti valori morali come rispetto, onore, disciplina, rettitudine ecc.
La finalità era profondamente diversa.
Ma le differenze esulavano dall’ambito applicativo, tecnico o di efficacia. Esse risiedevano piuttosto nel processo formativo.
Le arti marziali, rappresentavano un sistema di educazione psicofisico che investiva “la trasformazione radicale dell’allievo” (cit.)
La denominazione richiama due concetti distinti:
1. Arte.
Viene dal latino ars la cui radice indica tutte le attività dell’uomo in cui con dedizione, costanza e impegno riusciva in piena autonomia, con metologie e tecniche specifiche, ad esprimere la propria abilità e talento in un determinato campo.
2. Marziale.
Dal latino Martialis, derivazione di Mars, Martis ovvero Marte. il Dio della guerra. Veniva utilizzato per indicare situazioni di radicale conflittualità, come guerra, militarizzazione in senso stretto o lotta, e combattimento, in senso lato.
Le due parole sono state utilizzate in una locuzione unica generica coniata dagli occidentali nella metà del secolo scorso richiamando, sembra, un termine medievale che faceva riferimento all’uso della spada nella scherma europea. Il termine “Arte Marziale” dunque venne ritirato fuori dal passato ed utilizzato per indicare quelle discipline orientali dedite alla espressione del sé nel combattimento a mani nude e con le armi che si stavano diffondendo in occidente sempre di più, anche attraverso le sale cinematografiche. Tali “arti”, si affiancavano al pugilato e alla lotta grecoromana, quali discipline sportive e olimpiche.
Le arti marziali, poi, col tempo si sono collocate in due ambiti.
Quello sportivo e/o olimpico e quello non sportivo. In quest’ultimo ambito a sua volta si sono collocate le arti marziali appartenente alla c.d. “difesa personale” e alle discipline “energetiche” classificate come c.d. “ginnastica per la salute”.
Il Ving Tsun si è sviluppato inizialmente nell’ambito delle discipline di difesa personale.
Questo non ha permesso il combattimento quale confronto sportivo tra praticanti, bensì solo sparring libero controllato. In molti casi, con intensità medio bassa.
Tanti, hanno portato, e portano, come giustificazione al confronto sportivo, la motivazione che il Ving tsun ha colpi letali alla gola o su genitali o tecniche che rompono giunture, ossa ecc., per cui è impossibile portarlo nell’ambito sportivo. A questo punto la domanda nasce spontanea: nello sparring libero tra praticanti fuori dalle competizioni sportive quanti si danno colpi alla gola? Quanti si calciano i genitali? Quanti sferrano colpi per rompere ossa? Ovviamente nessuno.
Quanti invece si mettono guantini paradenti (e caschetto)? Quasi tutti (almeno se vogliono portare lo sparring ad un livello quantomeno medio).
Ora, se nello sparring libero si usano protezioni e si evitano colpi “pericolosi” perché non cimentarsi in combattimenti sportivi dove ci si mette in gioco in un ambiente regolamentato e controllato?
Oggi con il passare del tempo e degli anni si è reso granitico questo concetto di “impossibilità”, per questa disciplina, al confronto sportivo relegandola ad arte marziale letale. Ovviamente tanto più la disciplina è letale, tanto più si è giustificati a non confrontarsi.
Questo consente di prendere “due piccioni con una fava”:
a) scostarsi legittimamente da un banco di prova realistico;
b) utilizzare il concetto di “energia interna”, per creare quel misticismo attrattivo all’immaginario collettivo – portando i praticanti in un mondo astratto dove “tutto è possibile” e tutto può essere detto o fatto.
Difatti, il Ving Tsun (partendo da quel particolare quanto inflazionato esercizio del Chi sao) si sta trasformando in arte energetica e di sensibilità tattile dove sviluppare potenti capacità propriocettive unitamente ad una sorprendente energia interiore che ti darà la possibilità “dopo anni di pratica” di essere efficaci nel mondo fenomenico reale del combattimento (non si sa quando dove e se arriverà mai).
A lungo andare questo approccio rischierebbe di “demarzializzare” la divulgazione di questa disciplina
Oggi, la maggior parte del Ving Tsun sembra più una arte simile al Chi Kung o al Tai Chi Chuan classico praticato nei giardini pubblici cinesi dagli anziani.
Ci si trova spesso di fronte ad un palcoscenico virtuale, fatto di energia interna e micromovimenti di sensibilità tattile, arricchiti da altrettanti micromovimenti predeterminati e schematici a coppia, forieri di qualsivoglia stimolo allenante specifico, atto implementare qualsivoglia abilità psicomotoria al combattimento.
Facile, quanto banale, appare inquadrare tutto ciò come “finezze”, che molti uomini mortali non comprendono.
Rimanere, in questi casi, con i piedi per terra non abbandonando la logica e il buon senso è quantomai necessario per riportare marzialità a questa arte.
A cura di Simone Pietrobono